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Jefferson, Thomas.

Terzo presidente degli Stati Uniti d'America. Dopo aver concluso gli studi di Legge, si dedicò all'attività politica, imponendosi presto come uno dei capi del movimento indipendentista. Eletto al Parlamento della Virginia nel 1769, nel 1775 divenne rappresentante della colonia al Congresso continentale. Sostenitore dei diritti delle colonie, J. fu autore della Dichiarazione d'Indipendenza adottata dal Congresso nel 1776: essa prevedeva, per i nuovi Stati americani, un ordinamento sociale e politico di tipo democratico. Ritiratosi dal Congresso e recatosi in Virginia, fu nominato governatore nel 1779 e nel 1780; in questi anni J. si preoccupò soprattutto di rinnovare le strutture amministrative e politiche dello Stato in senso democratico e antiaristocratico. Fautore di una politica di intensa colonizzazione dei territori dell'Ovest, fece parte (con Franklin e Adams) della commissione che negoziò trattati commerciali con i maggiori Stati d'Europa, pur non condividendo una politica di impegno commerciale e sostenendo l'ideale di una grande democrazia rurale imperniata sulla piccola proprietà, improntata agli ideali di semplicità di vita e uguaglianza sociale: nasceva proprio in quegli anni il cosiddetto mito agrario jeffersoniano, che nella storia degli Stati Uniti era destinato a riproporsi come risposta e alternativa al modello di vita americano, fondato sull'ideale della ricchezza e degli affari. Dal 1785 al 1789 J. fu ministro in Francia, dove ebbe modo di conoscere le teorie illuministe che esercitarono sulle sue concezioni politiche una profonda influenza: in particolare, egli accettò le teorie contrattualistiche, secondo le quali lo Stato costituisce per il singolo individuo una costrizione e un male, necessari però alla convivenza, intesa come contratto tra più individui regolato dalle leggi dello Stato. Assunti durante il Governo Washington (1789) l'ufficio di segretario di Stato e la direzione della politica estera, J. venne a trovarsi ben presto in contrasto con Hamilton, allineato su posizioni politiche profondamente diverse. Rappresentante degli antifederalisti del Sud, J. riuscì a ottenere l'appoggio dei democratici di New York, creando in tal modo una solida base per il Partito repubblicano (oggi Partito democratico). Eletto vicepresidente della Confederazione nel 1796 e presidente degli Stati Uniti nel 1800, si adoperò per realizzare gli ideali di democrazia e di uguaglianza. Attribuì agli organi di governo locali maggior potere nella convinzione che essi, più vicini al popolo, ne potessero conoscere e interpretare meglio volontà ed esigenze; introdusse il suffragio universale maschile; abrogò le leggi che avevano fino ad allora favorito gli interessi delle grandi famiglie di proprietari terrieri. In politica estera J. affrontò il problema della Louisiana, territorio francese che rischiava di impedire l'ulteriore espansione a Ovest degli Stati Uniti, e che si risolse con l'acquisto nel 1803. Deciso a far rispettare la neutralità americana nel contesto dei conflitti scoppiati in Europa, J. (che nel 1804 aveva ottenuto ancora il mandato di presidente) si preoccupò di proteggere gli interessi commerciali statunitensi con misure antinglesi, emanando nel 1807 l'Embargo Act; risoltosi in un fallimento, che provocò danni all'economia americana più che a quella inglese e francese, il provvedimento fu revocato due anni dopo. Rieletto per la terza volta presidente degli Stati Uniti nel 1809, J. rifiutò il mandato per dedicarsi agli studi di architettura, che aveva coltivato anche durante gli anni della più intensa attività politica. Inizialmente imitatore del classicismo palladiano, in seguito si volse a una visione più personale, che si avverte in costruzioni quali l'università di Charlottesville (1817-26) (Shadwell, Virginia 1743 - Monticello, Virginia 1826).